L’economia del dono fa bene a chi la pratica e a chi riceve. Le organizzazioni hanno tutto da guadagnarci nel sostenere progetti umanitari internazionali. Perché? Ci sono vari buoni motivi che hanno a che fare con l’immagine, la fiducia, l’attrattività e il riconoscimento, ma anche con il marketing e con lo sviluppo del business. Infatti, sostenere progetti in Paesi in via di sviluppo non consente solo di ottenere benefici fiscali e poterlo scrivere nel bilancio sociale, ma anche di responsabilizzare i collaboratori, fidelizzarli e motivarli, conquistare nuovi e vecchi clienti e creare reti collaborative con l’altra parte del mondo. Contribuendo a renderlo un posto migliore in cui vivere.
l mondo del business ha da sempre considerato poco e messo in ombra la cosiddetta “economia del dono”, che, però, anche conl’aiuto delle nuove forme che si stanno facendo strada – “economia sociale, solidale, circolare” – sta emergendo in misuracrescente e diventando un tema di gran- de attualità. Eppure, ciò che le nostre aziende fanno, di norma, sono donazioni e nondoni. Qual è la differenza? Le prime sono tendenzialmente fini a se stesse e hanno come oggetto un bene, in alcuni casi un servizio, che viene regalato, con sensibilità e magnanimità, e genera un’utilità specifica nonché la gratitudine del ricevente. I doni, invece, costituiscono una relazione interpersonale. Attraverso di essi, chi compie l’azione entra in relazione con l’altro con un obiettivo e una prospettiva ben più ampia del superamento dell’esigenza immediata, ancorché vitale.
Questa è la filosofia che ispira dal 1952 Compassion International, global charity che, attraverso gli strumenti dell’adozione a distanza e del finanziamento degli studi scolastici, superiori e universitari, opera nei luoghi piùpoveri del mondo, in 25 Paesi in via di sviluppo, con oltre 8.300 centri, principalmente scuole. In questo momento oltre2,3 milioni di giovani, che vivevano in una condizione di povertà estrema, fruiscono dei servizi educativi e di base(mangiare, vestirsi, curarsi) nei centri Compassion, grazie ai ‘doni’ dei loro sponsor. Negli oltre 70 anni di esistenzadi questo modello, i ragazzi diplomati e laureati hanno restituito molto alle loro comunità, realizzando una parte diquella economia del dono, sociale e solidale, cui accenna- vo prima. L’altra parte importantissima di questo modello riguarda le imprese e i ‘ritorni’ in termini di immagine, fidu cia, attrattività nonché di motivazione efidelizzazione delle persone che operano all’interno e all’esterno di esse Tutte le volte che facciamo una pura donazione rischiamo di offendere la dignità dell’altro. Ecco perché le aziende più generose e filantropiche devono abbracciare questa economia: solo la relazione crea coesione sociale, spirito di fraternità e genera quel circolo virtuoso a cui si accennava in precedenza (e molte imprese-organizzazioni sono già impegnate in questo senso).
DONARE, NON REGALARE
La gran parte delle persone e delle imprese, però, continua a pensare che donare significhi elargire beni materiali o serviziper risolvere problemi specifici di chi, in condizione di povertà anche estrema, ne ha bisogno. Questa impostazione ha degliaspetti positivi, ma anche molti lati fortemente criticabili, come fa notare, con gran- de cognizione di causa, l’economistazambiana Dambisa Moyo nel suo libro La carità che uccide.
Come si esce da un simile impasse? Prima di tutto, con- sentendo a chi riceve di donare a sua volta a terzi o di ricambiare. Questo delicato passaggio può avvenire in molti modi, ma il principale consiste nella possibilità di ricevere donigenerativi, ovvero che, a ricaduta, creano altro bene. C’è una grande differenza tra l’offrire un pacco di riso e una giornata di scuola, sebbene ci sia bisogno di entrambe le cose. Il primo colma una necessità immediata, ma non causerà ricadutesociali positive nel medio e lungo termine. Permettere, invece, un’istruzione ai bambini in condizione di povertà li renderà tanto più grati, quanto più riconosceranno di poter fare a loro volta del bene, per esempio, affermandosi in qualcheprofessione.
Siamo di fronte a quello che viene chiamato “principio di reciprocità”. La nostra economia si basa sullo scambio (comproun oggetto per denaro) e sulla redistribuzione (lo Stato aiuta chi ha di meno, con le tasse dei più benestanti). Ma a queste due modalità manca la reciprocità, tipica del buon padre di famiglia, citato dal nostro stesso ordinamento giuridico: quello che un genitore – anche con l’adozione a distanza – fa per un figlio non presuppone alcuna logica di scambio, ma èconcepito come un investimento per il futuro, della famiglia e della comunità in cui vive. Il fine di qualsiasi società, infatti,è il bene comune. Gli americani la chiamerebbero “felicità”. Su questa linea di confine si gioca anche la motivazione delle persone che lavorano in azienda. Essa può essere estrinseca: lo stipendio, i benefit e il prestigio del ruolo. Ma ciò che davvero impegna e fidelizza le persone nei confronti dell’impresa è la motivazione intrinseca. Non esiste sistema diincentivi che funzioni altrettanto bene. Questa consiste nella condivisione della missione e dei valori, nella coerenza e trasparenza della governance, che deve garantire una rispondenza dei valori professati all’esterno e collegati al brand conquelli perseguiti e agiti all’interno. Questo discorso vale anche per i clienti e tutti i portatori di interesse dell’impresa: l’attrattività, la reputazione, l’immagine e la fiducia non si costruiscono solo con un’eccellente comunicazione, ma con una missione e dei valori professati e vissuti concretamente. Tra questi c’è certamente l’economia del dono, così come l’abbiamointesa in queste poche righe.
LA SOLIDARIETÀ SOCIALE COME STRUMENTO DI CRESCITA AZIENDALE
Che cosa fare, allora, alla luce di tutto ciò? Una delle vie può essere la solidarietà sociale. Non si tratta, come abbiamo visto, di lavarsi la coscienza donando qualche euro o ade- rendo a iniziative caritatevoli: è proprio un modo diverso di rapportarsi alla comunità. Occorre privilegiare società
le cui attività garantiscono un alto impatto sociale, come nel caso di molte charity e organizzazioni non governative (Ong), che aiutano i Paesi in via di sviluppo non solo dal punto di vista materiale, ma investendo nell’educazione e nella formazione dei più piccoli e più vulnerabili.
Una ricerca autonoma della University of San Francisco, realizzata nel merito delle attività di Compassion International, è utile a fornire qualche dato. Lo studio, condotto dall’economista Bruce Wydick, e facilmente reperibile in Rete, ha lo scopo di confrontare l’impatto del sostegno a distanza sui bambini che ne hanno fruito, rispetto a quanti, negli stessi luoghi e nelle medesime condizioni sociali ed economiche non l’hanno fatto. I dati sono stati raccolti su più di 10mila minori, intervistandone direttamente quasi 2mila. La conclusione della ricerca è stata che l’impatto di queste attività educative e di sostegno a distanza è estremamente significativo per la vita dei bambini beneficiari, ma anche delle loro famiglie e di tutto il Paese di origine. Molti di questi, infatti, diventano medici, avvocati, manager, insegnanti, politici e imprenditori, generando un impatto sociale ben superiore alle cifre investite per la loro educazione e il loro sostentamento negli anni dello studio. In particolare, è emerso che questi bambini sono rimasti a scuola da 1 a 1,5 anni in più rispetto ai loro coetanei non sponsorizzati dal programma Compassion (in Uganda, la media è di 2,4 anni); hanno fino al 13,3% in più di probabilità di finire la scuola primaria; dal 27 al 40% in più di concludere l’istruzione secondaria rispetto a coloro che non sono iscritti al programma di adozione a distanza; dal 50 all’80% in più di probabilità di completare un’istruzione universitaria rispetto ai coetanei, a pari condizioni di partenza. In molti casi, loro stessi diventano insegnanti, per trasmettere ai concittadini le conoscenze acquisite.
Lo studio, pubblicato anche nel Journal of political economy, è composto anche di alcuni follow up volti a indagare alcune competenze trasversali e caratteristiche personali dei giovani adulti usciti dal programma. Questi, nella quasi totalità dei casi, dimostrano doti di leadership, autostima e capacità di relazione molto superiori a quelle dei pari età. Naturalmente la loro speranza nel futuro è decisamente superiore, cosa che genera un effetto positivo, a cascata, sulle loro famiglie e comunità.
CI SONO MOTIVI IMMATERIALI PER DONARE
Per quale ragione, però, un’organizzazione dovrebbe supportare progetti di un simile programma internazionale o di altri sul genere, per quanto i risultati siano visibili e tangibili? Perché un imprenditore, un Direttore Generale, un Amministratore Delegato o un Consiglio di Amministrazione dovrebbero preoccuparsi degli studi di bambini che vivono dall’altra parte del mondo, in Paesi in via di sviluppo?
Come abbiamo visto, una importante motivazione è l’engagement dei collaboratori. Condividere un sogno unisce e coinvolge ben di più della condivisione della scrivania. Anche in termini di retention ci sono dei vantaggi: i Millennial (ma non solo) sono particolarmente attirati dal curriculum etico di un’azienda.
Un recente studio della Oxford Economics ha evidenziato che un neoassunto su 25 abbandona il lavoro dopo una settimana se non trova immediata corrispondenza con i propri valori. Il codice etico aziendale può essere un buon punto di inizio, ma le persone devono poter vivere i princìpi in esso contenuti. Appare evidente che lo sposare cause umanitarie è un potente driver a sostegno di operazioni di motivazione, retention e di company pride, con tutti i risvolti positivi che questo comporta.
Un altro motivo, non meno importante, riguarda la fidelizzazione dei clienti, vecchi e nuovi. È un obiettivo strategico per le imprese: una ricerca effettuata dalla Harvard Business School, condotta da Frederick
- Reichheld e Phil Schefter e pubblicata su Harvard Business Review, intitolata “The economics of e-loyalty”, stabilisce che un aumento percentuale pari anche solo al 5% del tasso di retention può determinare un aumento dei ricavi fino al 95%. I dati dimostrano, inoltre, come il cliente fidelizzato aumenti in maniera esponenziale la sua propensione al nuovo acquisto. A questo si aggiunge la suggestione fornita di recente dal guru del marketing Seth Godin, secondo il quale oggi non sarebbe più il prodotto a fare la differenza, ma le storie che lo accompagnano. Infine, secondo una recente indagine di Weber Shandwick dal titolo “The state of corporate reputation in 2020: everything matters now”, alla company reputation è attribuibile ben il 63% del valore di mercato dell’azienda.
L’istituto di ricerche di mercato Swg, come ogni anno, ha presentato anche nel 2021 lo studio sull’impatto sui consumatori della responsabilità sociale delle imprese: il 76% dei soggetti campione (il periodo di riferimento è febbraio 2021) ha risposto che quando sa di un’azienda che ha comportamenti poco etici tende a non comprare più i suoi prodotti o servizi; il 74% dichiara di acquistare più volentieri prodotti e servizi di aziende note per l’impegno sociale; per il 50%, infine, la responsabilità sociale è solo una questione di marketing. Sempre Swg ha poi realizzato la ricerca speculare per Osservatorio Socialis, su circa 800 imprese oltre i 100 addetti: è emerso come il 66% delle aziende che donano lo facciano per cause umanitarie e un terzo di esse non si accontenti di erogare fondi, ma si impegni in prima persona, con programmi appositi. L’affidabilità dell’ente che propone il progetto da finanziare determina la scelta di investire e la maggior parte delle imprese decide la cifra in percentuale sui proventi dell’anno.
BENEFICI FISCALI E CREAZIONE DI NUOVI MERCATI
Su questo dato si inserisce un’altra considerazione. Ci sono anche motivi più materiali per donare. Dynamo Academy, in collaborazione con Chief executives for corporate purpose (Cecp), Sda Bocconi e l’Università degli Studi di Milano, anche nel 2021 ha realizzato la ricerca annuale sul corporate giving. In essa emerge un aumento della propensione a donare. Una delle leve principali per indurre le aziende a farlo è quella fiscale. Infatti, nella riforma del Terzo settore, l’articolo 83 del D.lgs 117/2017 equipara i benefici fiscali per le donazioni in denaro e in natura, eseguite dal 1 gennaio 2018. È poi eliminato il tetto dei 70mila euro come importo limite, stabilito dalla massima che ‘più dai, meno versi’. In sostanza, le donazioni in denaro o in natura effettuate da persone fisiche, enti e società sono deducibili entro il limite del 10% del reddito complessivo dichiarato.
Infine, ci sono altri due motivi per cui le aziende dovrebbero sostenere queste cause. Prima di tutto, aiutare i Paesi in via di sviluppo contribuisce a creare nuovi merca- ti e, dunque, potenziali nuovi clienti per le aziende stesse: l’economia circola meglio se tutti i Paesi hanno potere di acquisto. Donare contribuisce a creare reti. Ci si relaziona meglio con persone che condividono dei princìpi e le medesime azioni umanitarie; dunque, si ampliano i contatti di clienti e fornitori. Restituire qualcosa al tessuto sociale ed economico in cui siamo immersi, pertanto, è sì un atto di generosità, che aiuta il prossimo, ma sostiene in primo luogo noi stessi.
Roberto Savini Zingardi, “Sviluppo&Organizzazione”, Maggio/Giugno 2022